I bambini hanno bisogno di una buona relazione di attaccamento per sentirsi sicuri e diventare adulti sereni.
L’esperienza traumatica mette in moto le dinamiche soggettive del sistema di ricerca di aiuto, di conforto e di protezione: vale a dire il sistema di attaccamento e il modello operativo interno (MOI) che lo regola.
Le esperienze traumatiche riguardano un complesso di vissuti emotivi dolorosi e pertanto non mentalizzabili che possono avere esiti psicopatologici sullo sviluppo della persona.
- 1. La teoria dell’attaccamento e i Modelli Operativi Interni
La teoria dell’attaccamento di Bowlby considera la propensione a stringere relazioni emotive con particolari individui come una componente di base della natura umana. Per la loro sopravvivenza e per la loro crescita, i piccoli della specie umana dipendono dagli altri per un lungo periodo, in quanto le funzioni biologiche di base richiedono una relazione stabile tra il bambino e il caregiver, generalmente la madre.
Al fine di comprendere meglio la teoria formulata da Bowlby, è fondamentale fare una distinzione tra attaccamento e comportamento di attaccamento. Citando Bowlby, quindi, possiamo dire che: “il comportamento di attaccamento può essere manifestato in circostanze differenti nei confronti di diversi individui, un attaccamento duraturo, o legame di attaccamento, è riservato solo a pochissimi individui (Bowlby, 1988, p.27).
- 2. I diversi stili di attaccamento
Con riferimento al modello teorico di Bowlby, Ainsworth, attraverso un metodo di osservazione denominato “Strange Situation”, ha descritto quattro principali stili di attaccamento:
- Stile di attaccamento insicuro/evitante: determinato da una madre insensibile ai segnali e alle richieste del bambino;
- Attaccamento sicuro: i bambini esperiscono una madre responsiva alle loro richieste e sensibile ai loro bisogni di protezione;
- Attaccamento ansioso/ambivalente: causato da una madre imprevedibile nella risposta, propensa a comportamenti affettuosi solo su sua necessità e non su risposta al bisogno del bambino;
- Attaccamento disorganizzato/disorientato: viene considerato un fallimento nella costruzione del legame con la madre poiché il bambino, a seguito degli atteggiamenti incomprensibili del genitore, non è in grado di organizzare una strategia comportamentale unitaria. È incapace di strutturare un comportamento coerente con la figura di attaccamento.
Uno stile di attaccamento non sicuro, visto nell’ottica del bambino, può anche essere inteso come una strategia di coping di fronte ad ambienti sfavorevoli alla crescita del minore. È il bisogno di un attaccamento sicuro ad essere stato colpito. Così il bambino, non solo può diventare sensibile alla perdita di altri, ma può anche aver difficoltà a trovarsi in un contesto relazionale in cui creare altri legami di attaccamento.
Per comprendere meglio come ciò può avvenire, appare nuovamente necessario il riferimento a Bowlby e alla sua, ormai nota, teoria dell’attaccamento:
Una volta che il legame di attaccamento si è stabilito, affinchè il bambino possa mettere in atto il comportamento di attaccamento, è fondamentale che questo abbia sviluppato la capacità cognitiva di ricordare la madre anche quando lei non è presente, solitamente, pochi mesi dopo la comparsa dell’attaccamento, il bambino “utilizza” la figura di attaccamento come base per iniziare ad esplorare lo spazio circostante, da questo possiamo dedurre che probabilmente il bambino ha acquisito una rappresentazione mentale della madre (che è l’oggetto del suo attaccamento).
Le rappresentazioni mentali che il bambino ha delle interazioni con i genitori, funzionano come veri e propri modelli operativi, che sono alla base per le più generali rappresentazioni delle relazioni con altre persone che i bambini stabiliscono nel momento in cui entrano a fare parte del più ampio mondo sociale. I modelli mentali dei bambini riflettono il modo in cui sono stati trattati dai genitori e a loro volta plasmano le rappresentazioni non solo dei genitori, ma anche degli altri. Questa conoscenza ovviamente la dice lunga sul perché la natura delle primissime relazioni sperimentate dal bambino sia dunque di estrema rilevanza per comprendere ed anticipare le modalità con cui quel bambino, una volta diventato adulto, si relazionerà con il resto della società. Saranno infatti queste rappresentazioni interne, a indirizzare l’individuo nella interpretazione delle informazioni che provengono dal mondo esterno e a guidare il suo comportamento nelle situazioni nuove.
Se il bambino ha avuto delle esperienze precoci con una figura allevante pronta ad offrire aiuto e conforto, costruirà un modello del sé come di una persona degna di amore e conforto. Al contrario, là dove la figura di attaccamento non sia stata sufficientemente responsiva ma rifiutante, il bambino formerà un modello mentale del Sé come di individuo non degno di essere amato e confortato.
Queste aspettative verranno poi estese a tutte le figure affettive che si incontreranno nel corso della vita.
Un aspetto fondamentale della teoria dell’attaccamento è infatti la convinzione che gli individui riproducano nel corso della vita i medesimi stili di attaccamento che hanno acquisito nelle prime interazioni genitore-bambino.
La mente dunque vive e si sviluppa nel contesto delle relazioni di attaccamento ed è vincolata dalla matrice delle relazioni di attaccamento nelle quali è inserita e dalla quale è sostenuta. L’aspetto delicato e affascinante dello sviluppo umano è che le relazioni di attaccamento non vengono ricordate, ma contribuiscono anche a formare le regole dei processi e delle strutture che organizzano i ricordi e i contenuti mentali.
Se la soggettività, il significato e l’identità sono esperienze, le loro vicende evolutive comportano il fatto che i processi che costituiscono la mente abbiano una struttura nella quale possiamo rintracciare la loro radice relazionale: i MOI (Modelli Operativi Interni).
L’essere umano si sviluppa attraverso una molteplicità di situazioni interattive e di ambiti relazionali con le figure di attaccamento.
Secondo Bowlby, lo sviluppo dei MOI, è l’esito di queste complesse dinamiche di incontro tra potenzialità del bambino, come propositore attivo, e il riconoscimento di queste potenzialità, che si costruisce nella relazione con le figure di attaccamento.
La famiglia dovrebbe dunque garantire un luogo sicuro e promotore di crescita per i piccoli. Ogni evento stressante che ostacola la cura ed una adeguata educazione, può comportare disturbi nello sviluppo del minore, proprio perché viene a mancare la principale funzione della famiglia, ossia quella protettiva.
- 3. L’evento traumatico e i suoi effetti
Non solo gli eventi traumatici direttamente vissuti dal bambino, possono causare in lui esiti patologici in età adulta, ma anche gli eventi traumatici vissuti dai genitori o da altri adulti significativi della cerchia famigliare, comportano delle conseguenze anche per i bambini o per gli adolescenti.
Ma cosa intendiamo per “evento traumatico”? possono essere eventi al di fuori dell’abituale esperienza umana (es. morte di un parente o un amico, incidente grave, rapimento, prigionia, abuso…) oppure esperienze relativamente comuni ma percepite come situazioni meramente difficili, dolorose, angoscianti e stressanti, vissute come estremamente minacciose (es. cambiamento di scuola, rottura di un’amicizia, di un fidanzamento, arrivo di un nuovo bambino in casa se non accettato…).
Quando le memorie traumatiche irrisolte, riaffiorano alla coscienza del genitore mentre è impegnato a rispondere alle richieste di cura dei figli, la sofferenza mentale legata a queste memorie, attiva il sistema di attaccamento della figura stessa di attaccamento, ovvero del genitore proprio quando anche il sistema di accudimento è attivo in lui/lei.
In assenza di un adeguato conforto, il sistema di attaccamento attivato dall’evocazione delle memorie traumatiche genera emozioni di paura o collera. Così il tentativo di confortare i propri bambini può essere interrotto da improvvise manifestazioni di collera o allarme.
Tali manifestazioni sono sempre fonte di paura nei bambini piccoli.
Si configura così una situazione nella quale la figura di attaccamento è, nello stesso tempo, la fonte e la soluzione della paura del bambino. Questa condizione intersoggettiva è ben connotata dalla definizione di “terrore senza sbocco”
La reazione innata e difensiva di fuggire dalla fonte di paura e minaccia, oppure di attaccare con aggressività, si innesca prontamente nel bambino il quale, percependo la figura di attaccamento come fonte di paura, potrà cominciare a costruire una rappresentazione di sé come vittima impotente. Dato però che il bambino nota espressioni di paura nel comportamento della figura di attaccamento quando le si avvicina, è anche possibile che nella sua memoria episodica si gettino le basi per una rappresentazione di sé come pericoloso per le persone amate. Se poi accade che la figura di attaccamento tragga conforto dalla vicinanza col bambino e quindi muti il proprio atteggiamento pauroso, nel corso della ricerca di vicinanza operata dal figlio, il bambino può percepirsi come salvatore onnipotente di una figura di attaccamento vista come debole e indifesa.
- 4. Come possiamo intervenire?
L’attaccamento disorganizzato sembra oggi un predittore del successivo comportamento ostile ed aggressivo.
Tutta via, un bambino che viva tali esperienze sfavorevoli, non è condannato, senza scampo, ad una vita di sofferenza e devianza. Le conseguenze negative precoci possono ridursi notevolmente grazie ad esperienze successive in grado di ridefinire l’immagine di sé del bambino nell’infanzia e nel suo percorso di crescita.
In tale prospettiva appare di particolare importanza poter intraprendere un percorso di psicoterapia la quale può rappresentare un valido aiuto per rielaborare l’esperienza vissuta e risolvere conflitti e difficolta emotive.
Bibliografia
- Attili, G., (1995), Le basi etologiche del comportamento sociale infantile: la teoria dell’attaccamento. Contesti relazionali e modelli di sviluppo
- Bowlby.J., (1988), A Secure Base. London, Routledge 11 New Fetter Lane; tr.it. Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento. 1989. Milano, Raffaello Cortina Editore.
- Di Blasio, P., (2000), Psicologia del bambino maltrattato
- Vianello. R., (2009), Psicologia dello sviluppo. Parma, Spaggiari S.p.a
- video sull’attaccamento