Spesso, scorrendo tra le notizie di cronaca, ci capita leggere di alcuni delitti, aggressioni, violenze o di altre emergenze, tutte accomunate da una triste costante: nonostante tali avvenimenti siano accaduti in luoghi pubblici ed in presenza di altre persone, nessuno è intervenuto per aiutare la vittima, oppure l‘intervento è stato piuttosto tardivo.
Un esempio recente di cronaca italiana risale ad Agosto 2022, ed è accaduto a Civitanova Marche, in una strada trafficata del centro. Un uomo è stato aggredito ed ucciso, in mezzo a tante persone e senza nessun intervento, se non l’atto di filmare l’accaduto con lo smartphone.
Oltre ad averlo riconosciuto tra le notizie di cronaca, questo è un fenomeno che probabilmente abbiamo vissuto in prima persona nella nostra quotidianità, in concomitanza a fatti di minore gravità: qualcuno che cade dalla bicicletta per strada o nella piazza della città, una persona anziana a cui cade o si rompe la borsa della spesa sul marciapiede, qualcuno che si accorge di essere stato derubato in metropolitana.
E’ possibile che, assistendo a episodi simili in presenza di altre persone, abbiamo sentito immediatamente una sensazione di disagio e tensione, derivata dal forte dubbio se intervenire o meno, con possibili pensieri come “Magari ce la fa da solo/a”, “Forse ora interverrà qualcuno più preparato di me”, “Cosa posso fare per lui/lei?”. Questa sensazione e questi pensieri spesso precedono l’eventuale nostro intervento di aiuto.
Nel leggere o nell’essere coinvolto in questi avvenimenti possiamo sentire emozioni contrastanti, e compiere diverse valutazioni: possiamo provare vergogna o senso di colpa per non essere immediatamente intervenuti, indignazione, rabbia per il mancato soccorso, o un generale senso di sfiducia e delusione verso una società che possiamo percepire come individualista ed orientata all’egocentrismo, con un ruolo decisivo giocato dagli smartphone che ormai sono nostri compagni di vita.
La psicologia sociale, ossia la branca della psicologia che si occupa dello studio dell’interazione dell’individuo e dei gruppi sociali, ha studiato questo fenomeno, fino a nominarlo effetto spettatore. Gli psicologi che lo hanno osservato e delineato sono Bibb Latanè e John Darley (1968), partendo da un fatto di cronaca degli anni ‘60.
Il caso di Kitty Genovese
Era la sera del 13 Marzo 1964. Kitty Genovese, una ragazza newyorkese di 28 anni, stava tornando a casa dal lavoro e venne aggredita e pugnalata con un coltello da un uomo, Wiston Moseley, fino alla morte.
Dopo le prime urla della ragazza, l’uomo fuggì accorgendosi di aver attirato l’attenzione degli abitanti del quartiere, poi tornò e la uccise. L’accaduto durò in tutto una mezz’ora, durante la quale Kitty ha urlato e chiesto disperatamente aiuto.
La polizia rilevò la presenza di 38 testimoni, nessuno dei quali è intervenuto in soccorso della ragazza. Nella decina di minuti in cui Moseley era fuggito, Kitty continuò a invocare aiuto, trascinandosi verso l’entrata del suo palazzo, ma senza riuscire ad entrare. Anche in questa finestra temporale, i vicini di casa che assistevano dalla finestra non scesero in strada ad aiutarla, dichiarando successivamente che pensavano fosse ubriaca.
Questo aspetto suscitò indignazione e scalpore nell’opinione pubblica, e diede ulteriore risvolto mediatico all’accaduto.
Lo studio del fenomeno: gli esperimenti di Latanè e Darley
Latanè e Darley approfondirono il caso Genovese, cercando di andare oltre al giudizio legato al valore etico e morale di prestare aiuto a chi ha bisogno, e ricercando la causa di tale comportamento a fattori legati a dinamiche sociali e di gruppo. Ipotizzarono che potesse esserci la tendenza sempre minore di intervenire all’aumentare del numero degli spettatori ad un determinato evento. In altre parole, più persone assistono ad un avvenimento, meno si è propensi a prestare soccorso. Per verificare tale ipotesi, misero a punto degli esperimenti di psicologia sociale.
In uno studio, hanno reclutato un totale di 72 studenti di psicologia, dicendo loro che avrebbero dovuto condurre una conversazione sulla vita universitaria con altri studenti. I soggetti venivano condotti uno alla volta in un laboratorio con nessun altro, nel quale avrebbero comunicato con gli altri studenti per mezzo di un interfono.
Ad un certo punto, durante la discussione, gli studenti sentono tramite l’interfono che un ragazzo che stava parlando avere un malore simile ad un attacco epilettico, lamentarsi e chiedere aiuto, per poi interrompere la comunicazione. Tale voce era in realtà fittizia e registrata. Inoltre, ad alcuni partecipanti è stato detto che avrebbero parlato con un solo studente (che era in realtà la voce registrata simulante il malore), mentre ad altri che la conversazione sarebbe stata tenuta con un numero maggiore di studenti, che variava da due a sei, tutti in realtà complici dell’esperimento.
Durante l’esperimento è stato misurato il tempo intercorso tra la comparsa della voce dello studente che aveva un malore e il momento in cui il partecipante è uscito dalla stanza in cerca di aiuto.
L’obiettivo dello studio era verificare se questa tempistica variasse al variare nel numero degli studenti che, secondo il partecipante, erano coinvolti nella conversazione e quindi avevano sentito il ragazzo stare male.
I risultati mostrarono che, mentre l’85% degli studenti che sapevano di essere gli unici ad aver sentito i lamenti uscirono dalla stanza prontamente e tempestivamente in cerca di aiuto, solo il 31% di quelli che sapevano di essere coinvolti in un gruppo di conversazione più numeroso intervennero uscendo dalla stanza, e che questa percentuale diminuisce all’aumentare della numerosità del gruppo. In un secondo momento venne chiesto agli studenti cosa avessero pensato dopo aver sentito i lamenti del ragazzo. Loro risposero di essersi sentiti confusi e in un conflitto anteriore, di non aver capito cosa stesse succedendo, di non sapere cosa fare e che doveva trattarsi di uno scherzo.
Per un altro studio tenuto da Darley e Latanè vennero reclutati altri studenti universitari, e gli fu richiesto di compilare un questionario circa le problematiche legate alla vita in un’università metropolitana, all’interno di una stanza.
Ogni partecipante viveva una delle tre possibili condizioni sperimentali: alcuni erano presenti da soli nella stanza, altri erano nella stanza in presenza di altri due studenti, in realtà complici dello studio. Altri ancora erano presenti con altri due studenti, anch’essi partecipanti naives dell’esperimento. In tutte queste condizioni, dopo che i partecipanti avessero compilato due pagine di questionario veniva introdotto del fumo bianco dalle feritoie della porta, a simulare un’emergenza.
Nella condizione con i complici, questi ultimi durante la compilazione non parlavano e alla comparsa del fumo, dopo averlo velocemente guardato continuavano tranquillamente a compilare il questionario. Per tutta la durata dell’esperimento il fumo continuava ad entrare nella stanza, sino a oscurare quasi completamente la vista di chi era all’interno.
In questo studio vennero videoregistrate le reazioni dei partecipanti e misurato il tempo intercorso dall’introduzione del fumo al momento in cui lo hanno notato ed alla loro uscita dalla stanza in cerca di aiuto.
I risultati furono sorprendenti: la presenza di altre persone che sottostimano la gravità della situazione non solo inibisce la risposta e l’eventuale reazione di richiesta di aiuto, ma ritarda in modo significativo il momento in cui si percepisce la presenza del fumo! Infatti coloro che hanno compilato il questionario insieme ai due complici hanno avuto bisogno di più tempo per accorgersi della presenza del fumo e ci misero in media più tempo a uscire dalla stanza. Alcuni di questi non chiesero aiuto fino al termine dell’esperimento, nonostante iniziassero a tossire ed a dipanare il fumo con le mani per riuscire a vedere.
Conclusioni
A seguito degli studi effettuati, Latanè e Darley confermarono l’esistenza dell’effetto spettatore, ossia la tendenza a non agire di fronte ad un’emergenza o ad una situazione che necessita di aiuto se sono presenti altre persone che vi assistono; inoltre, sembra che più persone sono presenti, maggiore sarà la tendenza a non agire. Tale fenomeno secondo gli autori è collegato a due aspetti: da una parte, la mancanza di preoccupazione degli altri spettatori porta ad una percezione ed una valutazione sottostimata dell’evento, dall’altra vi è il pensiero che, non essendo l’unico testimone, qualcun altro interverrà o sarà maggiormente in grado di intervenire (la cosiddetta diffusione di responsabilità).
Tali studi si sono rivelati fondamentali per inquadrare e delineare tale fenomeno in un modo scientifico e libero da giudizi sulla persona. Conoscendolo in maniera più approfondita ed essendo consapevoli della sua esistenza, è possibile riconoscerlo quando è in atto e, nel caso, scegliere di agire secondo altri tipi di valutazioni che si possono fare in quel determinato frangente. Riconoscere la tendenza a non agire durante un’emergenza può essere infatti il primo passo per scegliere consapevolmente di agire e, se valutato necessario, chiedere aiuto.
Riferimenti bibliografici
Latane, B., & Darley, J. M. (1968). Group inhibition of bystander intervention in emergencies. Journal of personality and social psychology, 10(3), 215.
Darley, J. M., & Latané, B. (1968). Bystander intervention in emergencies: diffusion of responsibility. Journal of personality and social psychology, 8(4p1), 377.
La storia di Kitty Genovese – Il Post
Articolo scritto dalla dott.ssa Sara Angelicchio psicologa presso la sede di Saronno del Centro Interapia