Prendendo in prestito la campagna contro le fake news in medicina promossa dalla FNOMCeO (Federazione Nazionale Ordini Medici Chirughi e Odontoiatri “Dottore….ma è vero che?), proviamo anche noi  a smentire i falsi miti e bufale sugli antidepressivi.

 

 

I farmaci bastano anche senza psicoterapia: i farmaci curano solo il sintomo e la psicoterapia la causa

Falso. Medicine e tecniche psicologiche sono strumenti che mirano agli stessi obiettivi, con modalità diverse, ma non sono “mondi” diversi. E’ falso sia che i medicinali non curino alla radice, sia che le psicoterapie per definizione curino alla radice. I medicinali arrivano ad influenzare sia le interazioni ambientali che le strutture cerebrali.

Diversi studi hanno dimostrato che la psicoterapia riesce a modificare le strutture del cervello, che è un organo molto plastico.  In molti casi l’uso degli psicofarmaci necessita di essere integrato all’interno di un percorso di cura che include anche la psicoterapia, così come la psicoterapia necessita dell’aiuto dei farmaci per poter “lavorare” meglio. 

 

Le medicine possono farci poco quando il malessere deriva da avvenimenti o esperienze negative. 

Falso. Per lo stesso ragionamento di cui sopra, quest’idea è sbagliata. I medicinali influenzano un livello di funzionamento e plasticità del cervello che è comune sia alle malattie fondate su una vulnerabilità di partenza, sia a malattie che si sviluppano per l’intervento di fattori esterni. Non vi è quindi alcuna differenza sostanziale in questo. Inoltre, il nesso di causalità è secondario rispetto alla presenza di determinati sintomi e influisce poco sulla evoluzione e sulla prognosi.

A volte, anche la gravità dell’evento scatenante non appare correlato alla gravità della Sindrome depressiva sviluppata: esperienze estremamene gravi possono non influire in modo significativo sul tono dell’umore, mentre eventi apparentemente più “lievi” possono innescare una grave risposta depressiva

Gli antidepressivi in realtà sono placebo.

Falso. Questo tipo di affermazione spesso prende uno o due studi relativi a un tipo specifico di farmaco su un tipo specifico di disturbo e la estende a qualsiasi cosa.

Al contrario, diversi e autorevoli studi effettuati da scienziati e ricercatori, hanno ormai stabilito senza ombra di dubbio la correlazione positiva tra miglioramento dei sintomi depressivi e terapia farmacologica antidepressiva.

Esistono poi correnti “complottistiche” sugli interessi economici delle case farmaceutiche. Senza entrare in un dibattito su questo, è, però, paradossale come si accetti per buono che “gli psicofarmaci sono una truffa”, mentre invece si vedano di buon occhio una miriade di prodotti in libera vendita (anche questi venduti dalle case farmaceutiche) con indicazioni vaghe e indefinite tipo “è utile”, “aiuta”, “può agevolare” in riferimento a generiche condizioni di ansia, stress, malessere, debolezza, etc.

 

Alterano la personalità

Falso. Purtroppo, ancora oggi, questa credenza è ancora molto diffusa. Gli psicofarmaci agiscono sui sintomi del disturbo e solo per questa ragione sembrano alterare il carattere. Il carattere, che è una caratteristica propria di ogni persona, può risentire di un disturbo depressivo sottostante, magari presente da anni (ad esempio la Distimia). Quando, con il farmaco, si va a incidere sul sintomo, sembra che abbiano influito anche sulla personalità, ma ciò non è ovviamente possibile.

 

Se il problema è il passato gli antidepressivi non servono

Falso. I farmaci agiscono in modo da condizionare in ogni caso il funzionamento del cervello. Anche se l’attuale disturbo è causato da esperienze negative del passato, essi possono comunque influenzare il modo di affrontare il presente e il futuro.

 

Creano dipendenza

Falso. Gli psicofarmaci usati correttamente e sotto controllo dello specialista psichiatra non danno problemi di dipendenza. I farmaci potenzialmente pericolosi in questo senso sono le benzodiazepine, ossia i comuni ansiolitici o ipnoinducenti. Lo specialista ne conosce i potenziali rischi e può indirizzare il paziente verso il loro uso corretto e limitato nel tempo. Anzi, spesso il rischio è proprio l’opposto, cioè di interrompere prima la terapia: sperimentando una situazione di benessere, il paziente ritiene di poter fare a meno dell’antidepressivo e lo interrompe prima del dovuto, implementando il rischio di ricadute. Se non si pensa che il cervello è l’organo che si ammala, succede che chi ha bisogno di lunghe cure per la presenza di recidive alla sospensione, può ritenere di non poterne più fare a meno perché dipendente. Se non le prende si riammala, se le prende sta bene, quindi la malattia è “colpa” delle medicine. Questo pensiero paradossale deriva proprio dal rifiuto istintivo di pensare che davvero tutta la complessità di pensieri, affetti e comportamenti possa derivare dal cervello.

Fanno male

Falso. Se vengono assunti come da prescrizione medica e sotto controllo non creano danni all’organismo, salvo casi specifici di intolleranza o interazione con altri farmaci.

Le medicine non posso mica cambiare il pensiero

Falso. Se è vero che non possono cambiare la personalità, è altrettanto vero che devono cambiare il pensiero, perché è un pensiero che è sottostante al Disturbo depressivo. Quando una persona depressa pensa di non avere via d’uscita, che tutto andrà male, che non ci sono più speranze per lui, ci si aspetta che la terapia modifichi questo pensiero “malato”. Ma questo è anche un tipico esempio di come il cervello non sia preso in considerazione. Le medicine che agiscono sul cervello evidentemente modificano le sue funzioni e di conseguenza il pensiero che è una funzione mentale. Perché mai quindi medicinali per la psiche non dovrebbero, tramite il cervello, agire sul pensiero?

Non tollero i farmaci. 

Detta così’ quest’affermazione ha poco senso, perché i meccanismi d’azione dei medicinali sono talmente diversi tra di loro che non esiste un terreno comune di non-tolleranza. E’ quindi probabile che il problema sia relativo alla predisposizione del soggetto che li assume, che è molto sensibile inizialmente ad alcune classi di farmaci, o si agita all’idea di avere degli effetti collaterali. Oppure, in realtà la persona non tollera un tipo di medicinali, ma questo non significa che non ve ne siano altri disponibili che hanno meccanismi diversi. Il non-tollerare inoltre non corrisponde ad un iniziale peggioramento, fenomeno che invece è frequente prima che compaia la risposta terapeutica. 

 

Per uscire dalla depressione ci vuole buona volontà

  Falso. Diverse persone sostengono che sia sufficiente metterci un po’ di buona volontà per risolvere la depressione, non capendo che in questo modo si acuiscono i sintomi della depressione in chi ne soffre. 

La volontà è la quantità di energia psichica di cui una persona dispone e la depressione è la mancanza di energia psichica nella persona cioè è proprio il contrario. Chiedere a un soggetto depresso di “sforzarsi”, di “mettercele tutta” è come chiedere ad una persona con una gamba rotta di partecipare ad una gara di corsa ad ostacoli. La cosa sarebbe sciocca, non credete? Lo stesso vale per la depressione, che presenta come uno dei sintomi principali la mancanza di energia (anergia) sia fisica che psichica. Se il paziente si convince di questo, aumenterà il suo senso di disistima e di inadeguatezza, implementando i sintomi depressivi e la sofferenza. 

 

Se prendo gli psicofarmaci sono depresso

Falso. Anche questa affermazione è un paradosso. Detta così sembra che sia il farmaco a determinare l’esistenza della malattia, mentre è la presenza dei sintomi che determinano la diagnosi e i farmaci ne sono semplicemente la cura. E’ come se si dicesse: “se prendo l’insulina allora sono diabetico”. In realtà si dovrebbe affermare: “Sono diabetico, quindi prendo l’insulina”.

Andare dallo psichiatra vuol dire essere matto, o essere considerato tale

Falso. In molti ancora si vergognano di andare dallo specialista. Lo psicologo e lo psichiatra sono i due professionisti che si occupano di depressione, che la sanno riconoscere e curare. Non rivolgersi a loro quando se ne hanno i sintomi è da matti, non il contrario.

 

Si vede subito quando una persona è depressa

Falso. E’ una convinzione diffusa che la depressione si legga in faccia. È senz’altro vero che alcune persone non riescano a nascondere il loro umore, sia nell’espressione che negli atteggiamenti ma è altrettanto vero che diversi depressi nascondono la loro condizione, specie quando sono in pubblico o anche in famiglia. Basta pensare ai personaggi pubblici che soffrono di depressione: quando sono in televisione ad esempio nessuno potrebbe pensare che siano depressi. Sottovalutare la depressione di un nostro caro solo perché non la “si legge in faccia” è molto pericoloso, poiché si rischia di sottovalutare una situazione potenzialmente pericolosa.

 

La depressione colpisce le persone deboli

Falso. Un’altra convinzione ridicola è che la depressione colpisca le persone deboli. La depressione è una malattia complessa che può colpire chiunque, senza alcuna distinzione. Sentirselo dire, però, può peggiorare notevolmente la situazione.

Ci sono varie conseguenze a questo genere di pregiudizi.

La prima è il rischio che il paziente a causa di queste false credenze, si sottragga a cure corrette, opponendosi all’assunzione di farmaci. La seconda, non meno grave è che il paziente assuma i farmaci in modo discontinuo e/o li sospenda precocemente. Questo comportamento, a sua volta, ne riduce l’efficacia implementando l’idea di inguaribilità.

A volte, ad un livello più profondo, alcune persone hanno un legame con la propria malattia tale che è entrata a far parte della loro personalità, ovvero del modo con cui una persona si rappresenta la propria identità. Eckhart Tolle nel suo libro “Il potere di adesso – Guida all’illuminazione spirituale” (Edizioni My Life, 2013) afferma:

Ciò non significa negare che potresti incontrare una forte resistenza interiore nel processo che ti porta a recidere l’identificazione con il tuo dolore. Ciò avviene soprattutto se hai vissuto per gran parte della tua esistenza identificandoti strettamente con il tuo corpo di dolore emotivo e se hai investito in quest’ultimo la totalità, o una porzione, della tua idea di identità.

Ciò significa che hai costruito un io infelice con il tuo corpo di dolore e ritieni che questa finzione creata dalla mente sia la tua identità. In questo caso, la paura inconsapevole di perdere la tua identità creerà una forte resistenza al processo di cui stiamo parlando.

In altre parole, preferirai soffrire ed essere il corpo di dolore, piuttosto che compiere un salto nel buio e rischiare di perdere il tuo io infelice ma familiare.”

 

Bibliografia 

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