Perché dovrei parlare del mio passato?
“Io sono in ansia/mi sento profondamente triste e disperato/in colpa/continuo a rimuginare oggi, perché stiamo parlando del mio passato?”, “Per quale motivo se ho un problema adesso, mi chiede com’è stata la mia infanzia?”.
Nei primi colloqui con uno psicologo o uno psicoterapeuta sorgono spesso spontanee domande simili. Talvolta, lo si chiede, altre volte lo si pensa solamente, ma le perplessità permangono.
Proviamo a dare una risposta a questi dubbi assolutamente legittimi!
Noi esseri umani siamo il prodotto della nostra storia, di ciò che abbiamo vissuto. Siamo frutto delle esperienze fatte, da quelle più comuni a quelle più significative e forti. Da tutto ciò che ci accade traiamo apprendimenti, anche quando non ne siamo consapevoli.
Le informazioni con cui entriamo in contatto, muovendoci nella nostra quotidianità, vengono registrate dalla nostra mente, immagazzinate in circuiti neurali all’interno del nostro cervello, formando delle mappe che contengono informazioni su di noi e sul mondo (per esempio su come siamo, su cosa è pericoloso, sulle persone di cui possiamo fidarci, e così via).
La nostra memoria, secondo il modello AIP (Adaptive Information Processing), è un insieme di informazioni immagazzinate: sensazioni fisiche e corporee, percezioni, emozioni, pensieri, convinzioni. È proprio come se il nostro cervello e la nostra mente funzionassero come un elaboratore di informazioni: le informazioni utili alla crescita e all’adattamento vengono immagazzinate nelle reti cerebrali, queste ultime ci permettono di interpretare ciò che succede e guidare il nostro comportamento, per contro gli aspetti superflui dell’esperienza vengono lasciati defluire. (Oren & Solomon, 2012).
Tutto questo avviene in automatico, grazie al sistema di elaborazione delle informazioni di cui è dotato il cervello di ogni essere umano. In pratica, come il nostro organismo è dotato di processi e strutture finalizzate alla promozione dello sviluppo e alla guarigione (laddove vi sia una ferita), così anche la nostra mente è predisposta ad adattarsi e favorire la crescita personale.
Facciamo un esempio: Se, andando a sciare sulla neve ghiacciata, cadessimo rompendoci una gamba, probabilmente ci spaventeremmo molto, proveremmo terrore e senso di impotenza, avvertiremmo un dolore lancinante; magari, passati paura e dolore, ci attribuiremmo anche la colpa (“Che stupido sono stato ad andare a sciare, sono il sempre il solito, ne combino sempre qualcuna. Ora questo errore mi costerà caro”).
Come tutte le nostre esperienze, anche questa verrebbe immagazzinata all’interno delle nostre reti neurali, nel nostro cervello. Ma quali sono le informazioni adattive che dovremmo trattenere? Probabilmente, ritornando sulle piste, faremmo più attenzione alla presenza di ghiaccio.
L’informazione “le lastre di ghiaccio sono pericolose, devi prestare attenzione perché potresti avere un’esperienza spiacevole” risulta essere adattiva, ci permette di metterci in una condizione di sicurezza. Ma sarebbe adattivo se il terrore provato nel momento della caduta si ripresentasse in tutta la sua intensità alla vista degli sci? O se pensassimo di essere totalmente incapaci perché caduti? Oppure in grave pericolo ogni volta che dobbiamo andare sulla neve? Probabilmente siamo tutti d’accordo nel ritenere che questo non ci aiuterebbe molto nell’affrontare la nostra vita, anzi potrebbe farci perdere dei piacevoli pomeriggi sulla neve con famiglia o amici!
Alla luce di quanto detto, è evidente come ogni evento faccia parte di noi, ben registrato nelle nostre reti cerebrali. Quando affrontiamo le nostre giornate, le informazioni in entrata vanno a connettersi con quelle già presenti in memoria; è proprio per questo che siamo in grado di leggere ciò che accade intorno a noi:
se vediamo delle bacchette per il sushi siamo in grado di riconoscerle, probabilmente abbiamo visto qualcuno usarle o ci siamo cimentati in prima persona nel loro utilizzo; magari ci fanno sorridere perché ci ricordano una cena “speciale” o ci suscitano sensazioni negative perché il pesce crudo a cui le associamo non ci piace. Da quanto detto, possiamo iniziare a intuire come le mappe neurali (che mantengono in memoria le nostre esperienze), permettendoci di dare significato al modo, determinino le nostre reazioni emotive e comportamentali (Shapiro, 2013).
Le lenti che ci permettono di guardare il mondo: i nostri schemi cognitivi
L’informazione contenuta nelle mappe neurali si organizza in schemi cognitivi (Young et al., 2007).
Ma cosa sono questi schemi cognitivi?
Gli schemi non sono altro che la traduzione psicologica (cognitiva ed emotiva) dei circuiti neurali, ovvero sono:
- formati da ricordi, emozioni, percezioni (immagini, odori, sensazioni somatiche ecc.) e pensieri
- lenti attraverso cui filtriamo i dati che provengono dall’esterno
- il modo in cui pensiamo a noi stessi
- ciò che ci permette di significare, e dunque regolare, le relazioni con gli altri
Le nostre reti neurali e i nostri schemi cominciano ad organizzarsi fin dalle primissime esperienze infantili, andando a rinforzarsi solitamente nel corso dello sviluppo, proprio per la loro capacità di agire come filtri interpretativi (dovuta al bisogno di “coerenza cognitiva”).
Ma come apprendiamo?
Come abbiamo visto, il nostro modo di pensare, di sentire, di regolare le emozioni e di comportarci, i nostri schemi, pur essendo condizionati dal temperamento e da aspetti biogenetici, vengono modellati da ciò che impariamo a partire dalle nostre esperienze, in particolare dalle nostre esperienze relazionali.
Ma quali sono le modalità attraverso cui apprendiamo?
- Esperienza diretta, ovvero ciò che ci accade in prima persona
- Informazioni che ci vengono date e informazioni non verbali ciò che ci viene detto, i messaggi che ci vengono passati, gli atteggiamenti e le reazioni altrui
- Osservazione di ciò che accade, ciò che vediamo accadere ad altri
Prendiamo come esempio una persona che, da adulta, presenta uno schema di inadeguatezza, in particolare si sente profondamente sbagliata, pensa di non andare bene e prova un senso di profonda vergogna. Tale schema potrebbe essersi sviluppato poiché è cresciuto in un ambiente molto esigente, in cui per ogni errore venivano criticato. Potrebbe aver giocato un ruolo chiave il vedere un genitore svalutarsi per gli insuccessi, non credere in se stesso, sentirsi sempre fuori luogo.
Qualcuno potrebbe avergli passato, fin da piccolo, il messaggio che “sbagliare è terribile”. Magari, può aver visto un fratello o un amico venir deriso, umiliato, svalutato. Insomma, le fonti da cui traiamo informazioni risultano essere molteplici ed è fondamentale considerarle nel momento in cui cerchiamo di ricostruire la storia dei nostri schemi. È fondamentale potersi chiedere “E questo dove l’ho imparato?”
Cosa accade quando abbiamo esperienze negative?
Come già introdotto dall’esempio di cui sopra, non sempre le cose vanno per nel migliore dei modi. Può capitare che le nostre esperienze siano negative, disturbanti e stressanti. In questi casi, è possibile che il sistema di elaborazione delle informazioni “si inceppi”, ciò significa che non riesce a integrare alcune esperienze alle reti neurali già presenti in memoria, quelle che racchiudono la nostra storia e le informazioni adattive. Quando ciò accade, le esperienze che potremmo definire “traumatiche”, disturbanti, vengono immagazzinate in reti neurali isolate, con tutto il loro carico di emozioni soverchianti, immagini, sensazioni fisiche spiacevoli, pensieri negativi, cognizioni sabotanti su di sé (Shapiro, 2013).
È come se l’esperienza si imprimesse nella nostra mente senza venir rielaborata. Tali vissuti congelatisi in memoria danno forma a quelli che vengono definiti schemi maladattivi precoci, ovvero a schemi disfunzionali che sono fonte di sofferenza. Tutte le volte che qualche stimolo del presente si collega e riattiva i circuiti neurali di questi ricordi spiacevoli, ecco che veniamo riproiettati nelle situazioni spiacevoli del passato, risperimentando quella stessa sofferenza, quelle stesse sensazioni. Inoltre, non potendo accedere alle informazioni adattive e alla consapevolezza delle nostre attuali risorse (poiché il ricordo disturbante è congelato in memoria separato dalle altre reti neurali), non riusciamo a discernere tra ciò che è stato e il nostro presente, non siamo nelle condizioni di agire in modo efficace e adeguato a quella che è la realtà attuale, ricorriamo a vecchie strategie comportamentali, funzionali in passato, ma che oggi potrebbero rivelarsi dannose o limitanti.
Ma perché partire proprio dall’infanzia?
Sicuramente le esperienze traumatiche non si verificano solamente durante l’infanzia. I cosiddetti “Traumi con la T maiuscola” (incidenti d’auto, terremoti, diagnosi di gravi malattie e così via) possono verificarsi a qualsiasi età, bloccando il nostro sistema di elaborazione. Tuttavia, l’infanzia è una fase dello sviluppo particolarmente delicata. In questo periodo
- Poniamo le basi per la costruzione della nostra identità, del senso di sé
- Cominciamo a sviluppare la nostra autostima
- Iniziamo a interiorizzare un senso di sicurezza
- Ci formiamo aspettative sul mondo esterno e sugli altri che ci permetteranno di fare previsioni più o meno accurate
In questo periodo siamo particolarmente plasmabili dalle esperienze e siamo anche vulnerabili. Alcuni eventi che agli occhi di un adulto possono sembrare di poco conto, possono essere sovrastanti per un bambino. Durante l’infanzia non possediamo le risorse che abbiamo da adulti, di fronte a certi ostacoli non possiamo cavarcela da soli, abbiamo bisogno di un supporto esterno affettuoso e attento.
Quando siamo piccoli, il nostro sistema nervoso non è ancora pronto a regolare l’attivazione emotiva, siamo in balia di ciò che proviamo, abbiamo bisogno di qualcuno che riconosca, rispecchi le nostre emozioni e ci insegni strategie efficaci per gestirle. Durante l’età dello sviluppo (infanzia ed adolescenza) si è più esposti al rischio di traumi con la t minuscola, altrimenti detti traumi relazionali. I traumi con la t minuscola non minacciano l’integrità fisica del soggetto, ma possono portare la persona a costruirsi una rappresentazione negativa di sé, degli altri e delle relazioni.
Essi sono particolarmente insidiosi poiché sono esperienze ripetute, che rafforzano man mano gli schemi maladattivi precoci.
Tra queste esperienze fortemente disturbanti troviamo la trascuratezza emotiva (nessuno si sintonizza su ciò che il bambino prova), l’ostilità, la mancanza di dimostrazioni di affetto e calore, l’imprevedibilità delle figure di riferimento (genitori che rispondono in modo scostante ai nostri bisogni o alle emozioni del bambino, ad esempio a volte in modo empatico altre volte arrabbiandosi).
Come mostrato da Van der Kolk (2015), i traumi relazionali costituiscono fattori di vulnerabilità per lo sviluppo di disturbi nelle età successive.
Conoscere il passato per affrontare il presente
Le esperienze negative registrate in modo disfunzionale nelle reti e alla base degli schemi maladattivi precoci influenzano il modo in cui ricordiamo il nostro passato, come interpretiamo il presente e come pensiamo al nostro futuro. In questi casi il passato non è solo passato, è ciò che viviamo nel quotidiano e che influenza le scelte che determineranno il nostro futuro.
Per questo in terapia è importante esplorare anche ciò che è accaduto, perché la nostra esperienza passata è la base (anche neurale!) di quello che viviamo oggi. Risalire all’origine dei nostri schemi maladattivi non permette solo di dare un senso al nostro disagio, un senso che va oltre l’etichetta diagnostica (“disturbo di panico”, “depressione”, “tratti di personalità evitanti” ecc.), ma consente di individuare le esperienze “non digerite”, così da poterle rielaborare.
La terapia cognitiva e la metodologia EMDR si rivelano, infatti, efficaci alleati nell’integrazione dei ricordi disturbanti all’interno di una prospettiva più adulta, in grado di implementare la consapevolezza delle proprie risorse e la possibilità di compiere scelte svincolate dalla pesante eredità del passato.
Per questo, quando in un percorso psicologico si chiede della nostra storia passata è perché si sta seguendo il motto: indagare il passato per riappropriarsi del proprio presente e futuro!
BIBLIOGRAFIA
Shapiro, F. (2013). Lasciare il passato nel passato. Tecniche di auto-aiuto nell’EMDR. Roma: Astrolabio
Oren, E., & Solomon, R. (2012). EMDR Theraphy: An overview of its development and mechanism of action. Revue Européenne de psychologie appliquée, 62, 197-203
Van der Kolk, B. (2015). Il corpo accusa il colpo. Mente, corpo e cervello nell’elaborazione delle memorie traumatiche. Milano: Raffaello Cortina Editore.
Young, E.J., Klosko, J.S. & Weishaar, M.E. (2007). Schema Therapy. La terapia cognitivo-comportamentale integrata per i disturbi della personalità. Firenze: Eclipsi