Sapevate che fino ai 3 anni siamo perfettamente in grado di autoregolarci nell’assunzione delle sole calorie, bilanciate tra i diversi nutrienti, di cui necessitiamo?
Proprio come se fossimo guidati da un nutrizionista interiore (Davis, 1939; Rolls et al., 2000)
Questa capacità viene poi persa negli anni successivi, nei quali la socializzazione e le influenze esterne divengono via via più preminenti e rilevanti.
Società, riconoscimento e ricerca di perfezione
Oggigiorno ci troviamo circondati da una quantità infinita di informazioni, che scorrono sempre più velocemente. Nella velocità, poi, il tempo per fermarsi, capire, stare con se stessi e con ciò che si prova sembra sempre meno, finanche controproducente.
Le risposte, complice una società basata sulla prestazione ad maiora, devono essere immediate, non pensate.
Ed è questo il contesto nel quale si instaura un bisogno di perfezione, come rimando che sembra provenire proprio da una società che si gioca in percentuali altissime su canali prettamente visivi, che rende l’ “apparire bene” ancora più fondamentale, forse anche perché ormai è l’unica cosa che sembra rimanere.
Infatti, fin dal periodo di emergenza sanitaria mondiale del 2020, si è stati testimoni e partecipanti attivi di un’esacerbazione del bisogno dell’essere umano di relazioni sociali, di sentirsi parte di un tutto, sentito sempre più impellente nell’obbligo del distanziamento fisico. Non potendo più vedersi e viversi di persona, ci si è affidati quasi esclusivamente ai canali digitali nello strenuo tentativo di mantenere anche solo un filo di contatto con l’esterno. In questo senso, in un momento di profonda fragilità, che perdura anche oggi, ci si aggrappa sempre più al visivo.
L’essere e il sentirsi parte di un gruppo non sono solo un piacere, ma una vera e propria necessità antropologica. Il bisogno di appartenenza è, infatti, così fondamentale da incidere sul benessere psicofisico, nonché sull’assetto identitario.
In quest’ottica, il cosiddetto “sistema” si delinea come un’entità che condiziona sempre, il fil rouge necessario per potersi sentire e riconoscere parte della società.
Nel momento in cui, però, la società risulta estremamente fragile, come in questo momento storico, le persone si sentono perse, tutto vacilla e sembra poter finire da un momento all’altro e questo, chiamando in causa la nostra stessa esistenza, non può essere tollerabile.
La “soluzione”, l’unica possibile, diviene allora quella di aggrapparsi a qualcosa di concreto, a qualcosa di tangibile che possa dare un’illusione di controllo laddove niente può essere certo.
Il cibo come mezzo
Ed è in questo contesto che, ora più che mai, il cibo diventa l’alleato (e il nemico) apparentemente perfetto per raggiungere proprio questo ideale di perfezione che, ci si illude, possa portare a sentirsi parte di quella società online che sembra proprio così tanto felice.
Inoltre, sempre all’interno di questa velocità che tutto permea, si diventa sempre meno esperti nella tolleranza della frustrazione, nello stare in ciò che si sente per conoscerlo e conoscersi, a fronte di un bisogno impellente di lenire un sentito che non piace poi così tanto: ed ecco che il cibo, che abbiamo sempre a disposizione e del quale non possiamo privarci (ché ne va della nostra sopravvivenza!), diventa l’oggetto perfetto per spostare l’attenzione dal sentito, così immateriale e impalpabile, al concreto.
Verso i Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione
Nonostante la sensibilizzazione generale, in luce di statistiche sempre più allarmanti ed esordi sempre più precoci, relativa ai disturbi del comportamento alimentare, forse ancora poco si parla, assumendo un’ottica preventiva più che reattiva, della più generale gestione delle emozioni attraverso il cibo.
Per quanto non esista un modo giusto o sbagliato per sé di approcciarsi al cibo, esistono diversi gradi di consapevolezza che circondano l’esperienza del nutrirsi. Alcuni studi, infatti, stimano che il 50-60% della popolazione manifesti un qualche comportamento alimentare disfunzionale (fame emotiva o nervosa), esito manifesto di una dis-regolazione emotiva sottostante legata al non riconoscimento di emozioni, le quali, nel tentativo di rendere tollerabile ciò che si sente, vengono spesso lette come fame e, quindi, trattate come tali
Non a caso, si stima che solo circa il 3% della popolazione, che intraprende un percorso di dimagrimento, riesce a mantenere l’effettiva perdita di peso iniziale a quattro anni di distanza.
Culturalmente, poi, ci ci si trova incastrati tra Scilla e Cariddi, tra la Grassofobia e la Body Positivity, in un clima contraddittorio la cui risultante è un miscuglio di senso di colpa e inadeguatezza che, a braccetto con la dis-regolazione di cui sopra, conduce abbastanza facilmente in circoli viziosi fatti di restrizioni cognitive e comportamentali (compensare quanto si è mangiato il giorno prima, prepararsi alla prova costume, rimettersi in forma dopo le feste, non mangiare certi cibi “cattivi”, …) che si alternano a momenti di sovra-alimentazione (per fisici stremati dalla deprivazione e/o per momenti emotivamente ingestibili), per poi tornare nuovamente alla restrizione e così via.
Come se ne può uscire? Quali possibilità?
Come prima reazione possibile, può forse venire spontaneo demonizzare la società, la cultura nella quale viviamo e i mezzi di comunicazione che la fanno da padroni.
Per quanto possa essere auspicabile una modificazione su larga scala rispetto a queste tematiche e per quanto una sempre maggiore sensibilizzazione in tal senso sia effettivamente in corso, occorre ricordare che la società è anche ciò che dà un contesto alle nostre vite, ma, per quanto possa dare una linea guida, non le definisce in toto, così come una cornice non potrà mai definire il quadro al suo interno.
Gli standard esistono, così come esistono le foto modificate per poter rendere la vendita di un prodotto più allettante. L’obiettivo non può essere l’eliminazione donchisciottesca di tutto ciò, pena una realtà anarchica che collassa su se stessa senza linea guida alcuna, ma il prenderne consapevolezza, il conoscere quale effetto tutto ciò abbia singolarmente su ognuno di noi, per poi imparare ad ascoltarsi.
Ciò che potrebbe funzionare, in tal senso, è il ripartire da se stessi, il prendersi spazio e tempo per conoscersi veramente, per diventare amici delle proprie emozioni, focalizzando le modalità di reazione per poterle poi discernere da quello che può essere altro, come, ad esempio, il ricorso al cibo, ridimensionandolo a mezzo per nutrirsi e depurandolo da altri significati consolatori. Ciò che potrebbe funzionare, quindi, è il trovare i propri standard interni di benessere e valore, senza prendere in prestito quelli esterni.
Vero è che questo cambio di prospettiva richiederebbe impegno e fatica, poiché, tra i presupposti, ci sarebbe quello di farsi protagonisti non solo della propria vita in generale, ma specificatamente del proprio benessere, assumendosene la responsabilità, senza più cederla al sistema nell’attesa di un cambiamento in meglio che può partire solo dall’interno.
Molte persone, presi nella frenesia della quotidianità, scelgono, più o meno consapevolmente, una vita così così, piuttosto che l’idea di doversi sforzare per migliorarla, che invece richiede fatica e impegno.
Imparare ad ascoltarsi, imparare cosa è meglio per sé, uscendo per un attimo dalla corrente di tutti i giorni e fermandosi per volgere lo sguardo all’interno, rappresenta sì un vero e proprio atto di coraggio, ma forse anche l’unico modo certo per decifrare la mappa alla volta del proprio personalissimo, tanto quanto meritato, benessere.
Una proposta…
Parlando di rapporto con il cibo e dell’utilizzo dello stesso come mezzo di gestione emotiva, una proposta estremamente efficace può essere quella del mindful eating, una tecnica di mindfulness applicata all’alimentazione, con l’obiettivo di renderla più consapevole.
Teorizzata inizialmente da Jean Kristeller in protocolli ad hoc per la cura del Binge eating disorder, il mindful eating si caratterizza come una modalità per smontare i condizionamenti sociali e recuperare la propria innata competenza di autoregolazione attraverso l’ascolto di sé e dei segnali che il corpo invia. In questo modo, imparando in parallelo a gestire le proprie emozioni senza ricorrere al cibo, si può divenire consapevoli delle infinite possibilità a nostra disposizione per nutrirci sia a livello alimentare sia a livello spirituale, con l’obiettivo di capire ciò che fa bene al Sé.
Tornare a sé!
Il movimento del Body positivity, poi, per quanto nato con ideali nobili di accettazione di ogni genere e forma fisica, ad oggi non fa che aumentare le contraddizioni presenti in società, passando per un apprezzare il proprio corpo sempre e comunque nonostante i difetti che ha, ma sentendosi poi di doverlo conciliare con l’idea stereotipata che solo una persona magra possa essere bella, di valore e successo.
L’obiettivo del movimento, nato nel 1996 assumendo la forma di un sito web creato da uno psicoterapeuta in associazione ad un suo ex paziente per aiutare le persone a stare bene con il proprio corpo, è quello di portare sempre maggiore consapevolezza sull’influenza che l’immagine corporea può avere sulla salute mentale e sulla percezione di benessere personale. L’immagine di sé, infatti, influenza il come ci si sente più in generale, nonché il proprio livello di autostima e l’avere un’immagine negativa di sé rappresenta un fattore di rischio per lo sviluppo di disturbi dell’alimentazione e depressivi.
In altre parole, il come ci si vede impatta sulla salute mentale, sull’idea che si ha di sé e anche su come ci si tratta.
Questo, però, non implica il doversi necessariamente vedere sempre e comunque bene e l’accettarsi ad ogni costo così per come si è, deriva che nell’ultimo periodo sembra aver preso il movimento, poiché, nel momento in qualcosa di sé non piace, sentire l’obbligo a farselo piacere comunque, porta tanto quanto a sintomi di inadeguatezza, senso di colpa e vergogna.
L’idea, ai fini di un proprio personalissimo benessere con il proprio Sé, sarebbe quella di tornare a sé e a ciò che fa stare bene, mettendo a fuoco come fa stare l’incontro con gli standard sociali, senza mentire a se stessi riguardo a come si sta perché ci si sente di dover essere positivi sempre.
Tale cambio di prospettiva porta con sé anche un’operazione di accettazione a tutto tondo di quelli che sono i propri vissuti, senza negare tutta quella parte di emozioni “meno accettabili”, ma imparando a conoscerle e ad averci a che fare in quanto intrinsecamente parte dell’esperienza umana.
Ma ruota davvero tutto intorno all’immagine corporea?
Un nuovo movimento che si sta affiancando a quello della Body Positivity, che prende il nome di Body Neutrality, afferma ciò che in psicologia si porta avanti da tanto tempo: focalizzarsi su un solo aspetto di sé e concentrare tutte le proprie energie per elevarlo alla “perfezione” può essere non solo controproducente, ma anche proprio dannoso. La frustrazione di realizzare che tutto ciò sul quale si era puntato non può comunque essere perfetto, ma senza avere anche altri aspetti di sé come fonte di autostima e soddisfazione personale, risulta annichilente per la persona.
Lavorare affinché la taglia e la forma del proprio corpo non siano gli unici elementi per stabilire il valore di Sé, ma coltivarne anche altri e vari, per poter costruire un’immagine multi-sfaccettata della propria persona, aiuta non solo nell’affrontare al meglio le fatiche del vedere il proprio corpo che cambia nel corso degli anni, ma anche a percepirsi integralmente come persone di valore e meritevoli anche se non tutto è in linea con gli standard della società in cui ci si ritrova a vivere.
Cos’è bello?
Bello è ciò che fa stare bene, bello è sentirsi bene, quale che sia il modo in cui ciò possa avvenire.
L’avere un’immagine di sé sfaccettata e positiva è, infatti, un fattore di protezione per il proprio benessere mentale.
Come esseri umani, siamo un unicum, siamo sia corpo sia mente, che si influenzano vicendevolmente e prendersi cura di sé passa da tutto questo.
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Articolo a cura di Ilaria Loi Psicologa e Psicoterapeuta riceve presso la sede di Legnano del centro di psicologia interapia