Nonostante l’essere umano sia intrinsecamente sociale, la paura di chiedere aiuto risulta essere più diffusa di quanto si possa immaginare.
Solo una ridotta percentuale di persone che si trova in una situazione di difficoltà, infatti, riesce a riconoscere la propria fragilità, il proprio essere fallibilmente umano e predisporsi così a chiedere aiuto.
Ci sono, infatti, persone che non riescono proprio a chiedere una mano o che, se messi proprio alle strette da situazioni limite, riescono a formulare la richiesta, ma con grande fatica, rischiando così di ottenere anche l’effetto opposto.
Come mai si fatica a chiedere aiuto?
Soprattutto nelle culture di tipo occidentale, profondamente individualiste e permeate di orgoglio, il chiedere aiuto viene sovente visto come un segno di debolezza, che poco si accorda con l’idea del “super-uomo” che tutto fa e tutto riesce, che affronta e supera qualsivoglia sfida gli si pari davanti, anche quando consapevole di auto-destinarsi ad un inevitabile fallimento o, comunque, in condizioni di peggiorare la propria situazione.
Un altro aspetto che entra in contrasto con la capacità di chiedere aiuto, è il pensarsi in diritto di ricevere la soddisfazione di un bisogno, senza che però questo venga specificato o esternalizzato. Si è spesso portati a pensare che la necessità percepita sia talmente evidente che non ci sia nemmeno bisogno di esprimerla ad alta voce e che, essendo essa talmente chiara, se l’altro non giunge in aiuto è per una qual certa cattiveria o disinteresse. Meccanismi di questo tipo sono non solo alla base di frustrazioni e delusioni personali, ma anche di crisi di coppia e rotture di relazioni amicali.
Anche la vergogna può giocare un ruolo in questa fatica. L’idea di dover rendere pubblico il sentirsi in difficoltà, malati o comunque bisognosi, può far sentire in difetto da un lato, ma può anche essere visto con sospetto dall’altro, con l’idea implicita che chi sta male sia in quella situazione per causa propria. Il volersela cavare da soli, in questo senso, può così diventare un tentativo per evitare che l’altro si allontani, nel timore di imbarazzarlo con la richiesta di aiuto o che possa giudicarla negativamente.
Il dover ammettere di essere in difficoltà, presuppone la capacità di vivere e scendere a patti con il fatto che si sta provando fatica, dolore, solitudine, tristezza e che da soli non si sa proprio come fare. Non a caso si sente spesso dire che queste emozioni sono negative, perché, piuttosto che viverle come segnali che stia succedendo qualcosa non in linea con i propri valori, ce ne si vergogna, le si etichetta come “emozioni che non vanno provate perché disdicevoli” e, al chiedere una mano, si preferiscono soluzioni più immediate come il ricorso all’emotional eating o l’uso di sostanze o, ancora, il tenersi freneticamente impegnati per non dover pensare.
Non da ultimo, anche convinzioni personali di non valore o non meritevolezza possono profondamente ostacolare la capacità di ricorrere al sostegno altrui quando serve. Vi sono persone che temono di poter essere un peso per gli altri, che non sono abbastanza
importanti o amabili per giustificare che l’altro possa usare il proprio tempo per venire in soccorso, che poi tanto “non è che sono proprio tutti lì pronti ad ascoltare se chiedo qualcosa e quindi tanto vale non chiederla proprio”.
Cosa vuol dire chiedere aiuto?
Per quanto si possa pensarla come una capacità quasi innata, dandola anche un po’ per scontata, l’abilità di chiedere, e soprattutto di chiedere aiuto, presuppone il considerarsi sufficientemente di valore da potersi esporre all’altro, anche, certo, correndo il rischio che l’altro possa dire di no, ma senza che questo intacchi eccessivamente il proprio senso di sé, mandando così in pezzi.
Il sentirsi in diritto, definito anche come il saper essere assertivi, porta con sé il riuscire a difendere i propri bisogni e necessità, permettendosi di comunicare ciò che si pensa e di chiedere ciò che si desidera in maniera chiara e aperta, nella consapevolezza che, qualora si ricevesse una risposta negativa, ciò non toglierebbe valore né al bisogno in sé né tantomeno alla persona.
Questa mancanza di abilità assertive si concretizza spesso con la convinzione che siano gli altri a dover offrire il proprio aiuto in maniera spontanea, senza cioè dover chiedere nulla, uscendone risentiti o delusi quando ciò non avviene e leggendo spesso questo come controprova inconfutabile della non volontà dell’altro di dare una mano.
Un altro concetto strettamente connesso risulta essere quello dell’autostima. Avere una bassa autostima, infatti, porta con sé anche l’attribuire poco o nessuna importanza alle proprie necessità. Nel tentativo di sentirsi più di valore, si cerca strenuamente di fare sempre di più e sempre meglio, di superare qualsiasi ostacolo con l’aiuto solo di se stessi perché, altrimenti, il chiedere aiuto sarebbe inesorabilmente una conferma della propria inferiorità, del proprio essere di minor valore rispetto agli altri.
In questo senso, il timore non risiederebbe tanto nel chiedere di per sé aiuto, ma più nel rischio di ricevere una risposta negativa, nella paura di rifiuto. Nel momento in cui dall’altra parte si riceve un no, per impossibilità o non volontà di aiutare, in casi di bassa autostima si finisce come interpretare la risposta come conferma del proprio nucleo di vulnerabilità (non essere amabili, abbastanza, …). Piuttosto che rischiare di andare in pezzi, si preferisce, quindi, evitare il problema a monte non chiedendo proprio.
Accettare di essere in un momento di bisogno, richiede la capacità di saper guardare al proprio limite con umiltà, senza che questo intacchi il proprio valore personale. Questa capacità permette così di chiedere aiuto con sicurezza, senza pretenderlo, manifestando il proprio problema e i propri bisogni e confidando nel fatto che gli altri sappiano rispondere altrettanto chiaramente se possano fornire o meno il sostegno richiesto.
Come superare questa difficoltà?
Come per ogni attività che non risulta spontanea, è possibile allenare anche la capacità di chiedere aiuto. Iniziare dalle piccole cose del quotidiano può aiutare a formare l’idea che sia possibile chiedere (e ottenere!) aiuto, fungendo così da rinforzo positivo.
Anche prendersi del tempo per sé, per ascoltare ciò che si prova (non importa se piacevole o spiacevole), può fungere da trampolino di lancio per la capacità di chiedere aiuto. Conoscendosi meglio, si impara a focalizzare i propri bisogni e necessità, accogliendoli come tali e avendo ben chiaro nella mente per quali serva una mano dall’esterno.
Dare un valore a sé e alle proprie difficoltà, senza sminuirle ritenendo che solo i “grandi problemi” giustificano il ricevere aiuto.
Non da ultimo, capire cosa ci sia alla base di una difficoltà permette di superarla. Lavorare sul conoscersi, sull’esplorare i propri temi e il proprio mondo di significati può essere illuminante rispetto alle fatiche che bloccano e che non permettono di chiedere.
Chiedere aiuto, per tutti i significati implicati, è un vero e proprio atto di coraggio: mettersi in gioco, mostrare le proprie paure, cercare di migliorarsi, riuscire a rialzarsi dopo essere caduti …
Che sia una telefonata ad un amico o un appuntamento con un professionista, può essere l’inizio di un cambiamento volto al proprio benessere …
Per approfondire
Chiederesti aiuto ad un Servizio di Counselling Psicologico? : l’atteggiamento di studenti universitari verso la sofferenza mentale e l’attitudine a chiedere aiuto / Gritti, Antonella;Di Sarno, Angela Maria;Lucariello, Silvana;Meterangelis, Annamaria;Bottiglieri, Bianca in “Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza : 80, 1, 2013, Roma : Armando, 2013 , 2039-9596 – Casalini id: 2908595” – P. 182-192 – Permalink: http://digital.casalini.it/10.1400/214973 – Casalini id: 2908710
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Articolo di psicologia scritto dalla dott.ssa Ilaria Loi psicologa e psicoterapeuta lavora presso la sede di legnano