Il temine “farmaco” deriva dalla parola greca φαρμακον, che In greco classico assumeva due significati differenti e antitetici: veleno e antidoto, male e rimedio. Il φαρμακον era la droga magica o farmaceutica ambigua nelle mani di coloro che godono di conoscenze eccezionali come maghi, sciamani e medici.
Ancora oggi il farmaco gode di questa doppia valenza: se a volte viene considerato come la panacea di tutti i mali, più spesso, viene vissuto come qualcosa di estraneo al sé e quindi di pericoloso. I luoghi comuni rispetto ai farmaci, ed in particolare gli psicofarmaci, sono ancora molti, e ciò ha un significato ancora maggiore se si pensa che l’Organizzazione Mondiale della Sanità preveda che nel 2020 il disturbo depressivo diventerà la malattia più diffusa.
Nella sostanza chimica confluiscono miti sociali, personali e familiari con profonda valenza psicologica, al punto da essere considerata una sostanza psichica essa stessa, desiderata e, nel contempo, temuta. Lo psicofarmaco attiva tutta una serie di fantasie e simbolismi che viaggiano attraverso i due poli del salvifico (guarigione) e malefico (intossicazione, avvelenamento) (La Barbera, 2017).
Da ciò deriva la figura dello psichiatra “sciamano”, che imbottisce di farmaci per cambiare la personalità del paziente e per “plasmarne” la mente. In realtà esistono sostanze in grado di modificare lo psichismo in modo molto maggiore (ad esempio le alterazioni del macrobiota umano che può produrre composti neuroattivi in grado di influenzare lo stato di salute mentale di una persona).
Un altro luogo comune riguardante il farmaco risiede nella paura di sviluppare una dipendenza da esso. In questo senso, come vedremo più avanti, risulta essenziale una buona relazione terapeutica, fondamentale per una buona compliance e per un buon rispetto della prescrizione medica, che riflette il superamento di un metabolismo psicologico del farmaco che inizia ancor prima della sua assunzione.
Modificare tali preconcetti non è facile, complici sia la formazione dello specialista che può essere solo strettamente farmacologica, sia le “vecchie” terapie farmacologiche psichiatriche, che hanno implementato una visione della psichiatria alla “Qualcuno volò sul nido del cuculo”.
In che modo, allora, si può agire sui preconcetti, sulle angosce e sulle valenze mortifere o salvifiche dello psicofarmaco?
Innanzitutto con una informazione chiara, comprensibile e fruibile da parte del paziente sulla terapia, sugli effetti collaterali, sul meccanismo d’azione e sulla scelta di quel determinato farmaco. Tuttavia, nella pratica clinica, ciò spesso non è sufficiente poiché si parte “dal fondo”, cioè la somministrazione della terapia, e non dalla “base”, cioè il colloquio con lo psichiatra. Proprio da qui comincia la terapia: ogni qualvolta si entra in relazione con un paziente, questo momento è già di per sé atto terapeutico.
Relazione medico paziente
La relazione medico/paziente assume dunque una valenza funzionale solo nel momento in cui si riesce a creare una alleanza terapeutica. Il termine “alleanza terapeutica” venne coniato da una psicoanalista, Elisabeth Zetzel nel 1955, grazie alla quale, per la prima volta, venne esplicitata la natura interattiva e bipersonale del rapporto terapeutico: non solo il paziente si allea con il terapeuta ma anche il terapeuta con il paziente. Bordin (1979) intenderà l’alleanza terapeutica come un fattore comune di tutte le terapie e la definirà come un reciproco accordo tra obiettivi del cambiamento e compiti necessari per conseguirli grazie allo stabilirsi di legami che mantengono la collaborazione dei partecipanti al lavoro terapeutico in cui il paziente si percepisce come collaboratore partecipe del proprio cambiamento. In quest’ottica, il paziente non “subirà” più passivamente la terapia, ma svilupperà una fiducia nel terapeuta e promuoverà la consapevolezza che entrambi sono impegnati in un lavoro comune condividendo la responsabilità del raggiungimento degli obiettivi del cambiamento.
E’ indubbio che le caratteristiche soggettive, la formazione personale e le capacità individuali dello psichiatra possono favorire o, al contrario, compromettere una valida alleanza terapeutica. Fattori che la possono favorire sono, ad esempio, la capacità di non fermarsi ai sintomi riportati ma inserirli all’interno della storia del paziente esplorando temi interpersonali, la tendenza a favorire l’espressione di emozioni in un’atmosfera di sostegno e attivo incoraggiamento, la capacità di assumere un ruolo collaborativo nel dialogo col paziente. Dall’altra parte, tra i fattori ostacolanti l’alleanza possiamo trovare l’autoreferenzialità dello psichiatra, la tendenza a distrarsi quando il paziente parla, lo scarso coinvolgimento emotivo (Ackerman, Hilsenroth 2001, 2003).
In questo senso, l’area clinico-farmacologica può assumere le caratteristiche di un luogo mentale atto non solo alla prescrizione del farmaco ma anche alla costruzione ed alla costituzione di un “setting farmaco terapico” che si caratterizza non solo per la qualità e le modalità farmacodinamiche di ciò che viene prescritto, ma anche per lo spazio relazionale dove, attraverso la presenza del farmaco, il paziente possa mettere anche paure, angosce, speranze, cioè uno spazio che sia una “base sicura” per sé e per le sue emozioni.
“La possibilità di raccontarsi e di essere ascoltato senza fretta di definire e prescrivere, favoriva la funzione comunicativa di ciò che veniva proiettato. Accogliere, per esempio, la diffidenza, comprendere il senso di comunicazione come atteggiamento condivisibile di fronte a ciò che non si conosce e commentarla insieme, favoriva la concordanza percettiva con la paziente e la costruzione di un’atmosfera emozionale “buona”, cioè meno intrisa di valenze persecutorie” (Oreste Bellini, 2007).
Consulenza Psichiatrica
La consulenza psichiatrica, soprattutto se integrata ad una presa in carico psicoterapeutica, permette e favorisce una “buona dissociazione” tra soggetto e sintomatologia oggettiva, restituendo al paziente la consapevolezza di un suo ruolo attivo nel ridare senso e significato al prendersi cura di sé, anche attraverso la prescrizione e l’assunzione del farmaco.
Quando, invece, la valenza salvifica del farmaco è messa in atto dal paziente per evitare di entrare in contatto con l’emotività, lasciando che il sintomo parli per lui, lo psichiatra dovrà riportare lentamente il ruolo del farmaco da contenitore ad una risignificazione comprensibile per il soggetto e ad una ricomposizione tra sé somatico e sé emotivo. Se ciò non viene fatto, il farmaco può fungere da sostituto o da surrogato del rapporto diretto medico-paziente: può servire come mezzo di distanziamento per sfuggire ad un rapporto troppo diretto oppure per evitare la presa di coscienza della valenza psichica del malessere, spostando quest’ultimo sul terreno culturalmente più accettabile e rassicurante della malattia organica. In molto casi è questa l’unica motivazione del rapporto, che si interrompe appena essa non viene più soddisfatta: è facile in questo tipo di relazione per il paziente sostituire un medico dopo l’altro.
Possiamo concludere, quindi che:
“il farmaco, riportando costantemente alla mente del paziente lo sforzo del curante, diventa il rappresentante della figura del medico e il metro di valutazione della sua competenza e, quindi, del grado di fiducia accordata” (La Barbera, 2017)
Bibliografia
D. La Barbera, Atti Seminario Psicofarmacologia e relazione terapeutica, Palermo 2017
F. Ceccarelli, evoluzione del concetto di alleanza terapeutica, 2014
V. Lingiardi, A. Colli, L’alleanza terapeutica nella terapia psicodinamica, Franco Angeli 2010
O. Bellini, Farmaco e psicoterapia: binomio possibile sulla cura integrata dell’anoressia e della bulimia, Franco Angeli, 2007
Articolo Scritto da Gaia Guggeri Psichiatra a Saronno presso la sede del centro InTerapia