Il Coronavirus è entrato prepotentemente nelle nostre vite.
Tutti ci siamo trovati a dover fronteggiare una modificazione improvvisa e obbligata del nostro stile di vita, che ci ha costretti a riorganizzare la nostra quotidianità. Abbiamo sperimentato una condizione di isolamento e di conseguente riduzione della socializzazione.
Alcuni di noi hanno continuato a lavorare, altri si sono trovati in condizioni di estrema precarietà.
Alcuni hanno sperimentato una condizione di totale solitudine, altri hanno vissuto una convivenza familiare forzata, che a tratti poteva essere percepita come soffocante.
In alcune famiglie i rapporti si sono consolidati e si sono creati nuovi equilibri funzionali, in altre le conflittualità si sono acuite.
Alcuni si sono trovati a diventare tutori e intrattenitori dei propri figli.
Alcuni non hanno vissuto direttamente l’esperienza del contagio, altri si sono ammalati o hanno sofferto la malattia o la perdita di persone care
Alcuni si sono iperattivati, altri si sono impigriti.
Alcuni hanno gestito in maniera funzionale le emozioni negative, altri si sono fatti sopraffare dalla paura, dall’ansia o dalla tristezza.
Tutti ci siamo trovati a vivere e a cercare di fronteggiare il timore dell’incertezza, che ha alimentato emozioni negative, creando e favorendo ansie, paure, preoccupazioni, rabbia e frustrazione.
Abbiamo provato, con minore o maggiore successo, ad allenarci nell’esercizio della pazienza.
Tutti abbiamo dovuto imparare a convivere con l’impossibilità di scegliere e di porci obiettivi a medio e lungo termine.
Tutti ricorderemo alcune immagini che sono divenute un emblema di questi mesi appena trascorsi: papa Francesco solo in una piazza San Pietro deserta, il corteo di mezzi militari che trasportavano un numero imprecisato di bare, l’infermiera addormentata sulla scrivania esausta dopo turni di lavoro estenuanti.
E adesso siamo entrati nella fase 2. Ma cosa comporta? Cosa possiamo mettere in campo per fronteggiarla al meglio?
Alcune persone sottovalutano il rischio, convincendosi del fatto che la vita sia ripresa normalmente. Questo atteggiamento porta ad una sottostima della minaccia o ad una percezione del pericolo come “lontano da me” e quindi ad una insufficiente tutela di sé e degli altri.
Altre persone, al contrario, sviluppano quella che viene denominata “sindrome della capanna”, ovverosia la tendenza a voler rimanere chiusi nel proprio rifugio e non voler uscire da esso.
La casa è diventata il luogo della “sicurezza”, in cui ci sentiamo protetti e tutelati. Il mondo esterno, al contrario, è divenuto il luogo dell’incertezza.
Ci siamo disabituati ad uscire e ci fa paura pensare di tornare in un mondo che non riconosciamo più.
Emergono quindi molte paure: del futuro, della malattia, dell’altro, di prendere decisioni, di avere una vita non regolata da un’autorità.
La fase 2 è caratterizzata dalla compresenza di emozioni diverse e contrastanti:
- la gioia per la ripresa della vita con minori restrizioni
- la paura dell’altro
- il timore del virus, ancora non debellato
- l’ansia di ciò che non conosciamo e con cui dobbiamo imparare nuovamente a interagire e convivere.
Per fronteggiare al meglio questo periodo dovremo essere in grado di rinnovare la nostra capacità di adattamento, non più all’isolamento, ma alla convivenza con il virus.
Quali sono gli aspetti che possono influenzare una minore o maggiore capacità di adattamento alla nuova situazione?
- il mantenimento delle abitudini: potrebbero essere avvantaggiate le persone che hanno continuato ad uscire di casa per recarsi al lavoro o a prendere mezzi pubblici di trasporto;
- le condizioni di isolamento: le persone che si sono ammalate e/o che hanno vissuto l’esperienza diretta del contagio o della perdita di famigliari potrebbero avere più difficoltà rispetto a coloro che hanno vissuto il lockdown senza gravi disagi, se non quello dell’isolamento stesso;
- lo svolgimento di una professione che comporta una maggiore esposizione a diversi fattori di rischio;
- l’assetto personologico di base: le persone ansiose che hanno la tendenza a rimuginare avranno maggiori difficoltà a gestire la situazione.
La lenta e graduale ripresa di una parvenza di normalità avrà indubbiamente un effetto benefico, anche se la condizione di deprivazione vissuta ha lasciato conseguenze emotive e psicologiche che dovremo smaltire ed elaborare in un tempo adeguato alla soggettività di ciascuno.
Dovremo pensare nel breve termine, giorno per giorno, senza rimuginare, cercando di stare nel “qui e ora” e beneficiando dell’esperienza anomala che abbiamo vissuto
Indubbiamente ci aiuterà riuscire a sviluppare una bilanciata capacità di controllo, che ci permetterà di fronteggiare al meglio le nuove situazioni che appartengono a un mondo che “non è quello di prima”.
Dovremo avere la capacità di riorganizzarci mentalmente.
É un po’ come uscire da una convalescenza, condizione che porta con sé timore, fragilità e speranza
Se gradualmente riprenderemo le nostre abitudini, se gradualmente affronteremo il presente, se gradualmente troveremo il giusto equilibrio tra l’evitamento e un’eccessiva sottostima del rischio, allora gradualmente tutto andrà bene.
Articolo Scritto dalla dott.ssa Paola Marinoni